Dalla parte di Natalia
«Qualcuno mi troverà forse matta, ma i traduttori, nelle loro traduzioni, amano certe cose minime che gli altri non sanno».
Con queste semplici parole Natalia Ginzburg va dritta al punto ed esprime il sentimento che contraddistingue il mestiere del traduttore: un attaccamento misto a gelosia che colui che traduce, che traspone un prodotto letterario in un’altra cultura, nutre nei confronti del risultato dei propri sforzi. Non si tratta di egotismo o vanità, bensì, come direbbe la Ginzburg stessa, di una affezione genuina e assai intima per il testo in ogni sua minuscola componente, attraverso ogni suo ricamo e intarsio. A tal proposito, Natalia Ginzburg traduttrice lo è diventata per via di Proust. E non è stato tutto rose e fiori come ci si potrebbe immaginare, tutt’altro: è stato come gettare un infante in acqua sperando che impari a nuotare all’istante.
Siamo a Torino, nel 1937, e a una giovane Natalia Levi viene proposto di tradurre nella sua interezza il colossale capolavoro di Marcel Proust, A la Recherche du Temps Perdu. A riporre in lei cotanta fiducia sono due figure assai rilevanti all’interno del contesto culturale dell’epoca: da un lato, Giulio Einaudi, fondatore quattro anni prima dell’omonima casa editrice torinese e promotore, attraverso essa, della diffusione della letteratura straniera in Italia; dall’altro, Leone Ginzburg, studioso e docente di letteratura russa, nonché membro del gruppo di intellettuali (tra i quali figuravano i nomi di Cesare Pavese e Carlo Levi) che avevano partecipato alla fondazione della Einaudi nel 1933. La proposta di una traduzione integrale è forse un tantino azzardata, considerati gli oltre nove milioni di caratteri di cui è composta la Recherche, ma sono spesso gli azzardi più ambiziosi a rivelarsi i più redditizi. La Ginzburg stessa ne parlerà così in seguito: «Era folle propormelo e folle fu da parte mia accettare. Fu anche, da parte mia, un atto di estrema superbia. […] Proust e la Recherche mi attraevano fortemente (ne avevo sentito parlare in casa) ma ne avevo un’idea confusa e non ne avevo letto una sola riga». Oltre alla totale inesperienza della traduttrice, c’è un’altra variabile da tenere in considerazione: il contesto stesso in cui l’opera andrebbe a inserirsi. Come testimoniato da Italo Calvino, infatti, l’Italia di quegli anni non si configura necessariamente come garanzia di un terreno fertile dove tale traduzione possa prosperare e diffondersi: l’intenzione è dunque «considerata temeraria, perché – si diceva – i pochi che da noi leggono Proust lo leggono in francese; previsione che tutto un nuovo pubblico smentì». È proprio questa la chiave: la traduzione della Ginzburg riesce nell’impresa non indifferente di plasmare un nuovo pubblico, più generalizzato rispetto all’élite che era solita gustarsi la prosa transalpina, ma non per questo meno rilevante.
Ora, tenendo conto che tale non era necessariamente l’obiettivo principe di quella che, nei progetti iniziali, sarebbe dovuta essere un’edizione completa della Recherche, i meriti della larga diffusione de La strada di Swann (questo il titolo scelto dal marito Leone per il primo libro dell’opera proustiana, Du côté de chez Swann) sono da attribuire in larga parte allo stile adottato sin dagli esordi di carriera dalla Ginzburg: uno stile non certo sfarzoso, bensì secco e controllato, tanto che il vaglio critico di Giacomo Debenedetti lo caratterizzerà come «un modello di diligenza, e quasi sempre un saggio di intelligenza molto applicata, attenta, puntuale». Da qualcuno definita divulgativa, la scrittura della Ginzburg è contrassegnata da una certa sobrietà sintattica e dall’adozione di quello che si potrebbe a posteriori definire, in maniera ammiccante, un lessico famigliare, certamente più terra-terra rispetto a quello adoperato dai traduttori che si sono avvicendati alle prese con Proust dopo il forfait dell’autrice palermitana. Ebbene sì: c’è da dire che Natalia è stata a tratti sopraffatta dall’esuberanza dell’opera, trascinata via dalla corrente impetuosa di fiumi di parole e svolazzi descrittivi, senza tuttavia uscirne mai sconfitta. Forse ridimensionata, ma di certo non sconfitta. A Proust erano serviti circa sedici anni per portare a termine il suo capolavoro; la Ginzburg, tra una vicissitudine e l’altra, ne ha impiegati quasi nove per mettere a punto la sua traduzione. La decisione di limitarsi al solo primo libro è maturata ben presto. Alle prese con una scalata così imponente, tanto in termini quantitativi che qualitativi, il lavoro implicava ore e ore di ricerca e revisione per ogni singola pagina, con infinite riscritture e innumerevoli bozze da cestinare, nulla peraltro di strano per una traduttrice in erba com’era lei: «Avevo vent’anni. Non avevo mai tradotto niente».
Entrando nel merito delle scelte lessicali da lei adottate, si nota una frequente predilezione per termini graficamente aderenti all’originale (es: ‘ebdomadario’ per ‘settimanale’; ‘affezione’ per ‘affetto’ etc.), anche se, talvolta, la tendenza è quella a normalizzare, a rendere i vocaboli il più potabili possibile per il pubblico italiano, in modo da favorire il passaggio interculturale. È questo il caso di alcuni termini della sfera culinaria, che, venendo stemperati, perdono in quanto a rigorosità nei confronti della ricetta di riferimento, ma acquistano una valenza più verace e riconoscibile per i lettori del bel paese: pommes de terre béchamel diventa ‘patate alla salsa’; oeufs à la crème diventa ‘uova affogate’. Il caso più emblematico è quello delle Petites Madeleines, che ne La Strada di Swann diventano ‘maddalenine’. Proust aveva scelto di usare le maiuscole, che solitamente centellinava, per almeno un paio di motivi: innanzitutto, per far sì che queste focaccine, motore dell’opera in quanto stimolatrici di ricordi, si stagliassero al di sopra del resto, ricoprendosi di un significato astratto e mistico; inoltre, quelle due lettere, P e M, richiamano sommessamente le iniziali dell’autore, in un gioco di capital letters già visto in Charles Dickens, che mise le proprie nel nome del suo David Copperfield. La critica ha tendenzialmente bocciato questa scelta normalizzante della Ginzburg: dal canto suo, in nome di un vincolo privatissimo tra traduttore e testo, l’autrice ha sempre difeso a spada tratta le proprie scelte, a partire dalle dolci maddalenine. E noi siamo schierati dalla sua, dalla parte di Natalia.
Giuseppe Cosio